Rita Sayah (38) vive con il compagno e due figli a Ginevra.
Mi metto in contatto con mia madre tre volte al giorno con il videotelefono, verso le 8 del mattino, le 11 e la sera, anche quando sono in viaggio. Se non mi faccio viva, chiama lei e chiede se c’è qualcosa che non va. Questo stretto contatto con i miei genitori in Libano non è una novità per me. La nostra famiglia – io e mio fratello in Svizzera, la seconda sorella in Nuova Zelanda – è molto unita. Da quando a mio padre è stata diagnosticata la demenza più di cinque anni fa, noi fratelli e sorelle siamo così presenti che non passa giorno senza sentirci. Mia madre ci informa sul trattamento farmacologico e ci racconta della vita quotidiana. Il geriatra è sempre raggiungibile al suo numero privato. Anche se non sono sul posto, sono vicina. A volte mio padre appare sullo schermo. Gli fa bene vedere me e i suoi nipotini e nipotine. Vado a Beirut tre volte all’anno. La prossima volta porterò con me un orologio GPS con localizzatore di persone, in modo che mia madre sia meno preoccupata che mio padre si perda nelle sue passeggiate. Il Telefono Alzheimer mi ha consigliato. Quando sono a Beirut cerco anche di trascorrere del tempo sola con mia madre, affinché possa sfogarsi. Il tabù a Beirut è paragonabile a quello esistente qui in campagna: chi ti circonda si accorge dei cambiamenti ma non chiede mai direttamente. Mia madre si rifiuta ancora di informare amiche e conoscenti. E io, per il suo bene, faccio il suo gioco. Era anche già entrata a far parte di un gruppo di familiari, ma si sentiva fuori posto. O, come dice lei stessa: «È solo deprimente». Probabilmente non vuole sentire già ora come peggiorerà lo stato di salute del marito. Per questo quando parliamo ridiamo anche molto degli «incidenti» e delle nuove stranezze di papà. E vedo come questo la aiuta. Neanch’io sto a pensare oggi come sarà tra qualche anno. Voglio essere vicina ai miei genitori qui e ora e per farlo mi avvalgo di tutte le possibilità, anche tecnologiche.
Commenti