Quando passa il controllore sul treno, Marianne W.* non riesce a trovare l’abbonamento ferroviario. Sembra sparita anche la carta di riconoscimento per le persone affette da demenza. Forse li ha dimenticati a casa? Il controllore dà segni di impazienza e torna più tardi con un collega. I due funzionari delle FFS costringono Marianne W. a pagare il biglietto. «Mi sono infastidita», ricorda. «Dopo tutto ho un abbonamento generale.» Le sarebbe piaciuto trovare una maggiore comprensione da parte del personale, così si sarebbe stressata meno. Marianne W. racconta questo episodio durante un incontro del gruppo di lavoro Impulso Alzheimer.
Il gruppo offre consulenza ad Alzheimer Svizzera su temi d’attualità partendo dalla prospettiva dei malati di demenza. Attualmente ne fanno parte sei persone, di età compresa tra i 58 e i 70 anni e originarie dei Cantoni di Zurigo, Berna e Lucerna. In che situazioni si sentono escluse e in quali, invece, vivono momenti positivi di inclusione? Beat Vogel racconta di un’esperienza positiva vissuta in treno. Un giorno si prefigge di visitare il Vallese per conto suo. Una passeggera anziana seduta vicina sente che ha bisogno di aiuto per prendere la coincidenza, così si offre di condurlo sul treno giusto e, spontaneamente, decide di accompagnarlo nel viaggio. «Una perfetta sconosciuta libera da impegni», racconta Beat Vogel. Ed è stata una bella gita.
Non lasciarsi scoraggiare
Continuare a muoversi, avere contatti con le persone, non isolarsi dalla società, anche se la malattia causa deficit funzionali e disturbi del comportamento. Questo è ciò che viene definito inclusione (v. riquadro). Per i membri del gruppo Impulso Alzheimer il termine astratto si concretizza nella quotidianità. Non si lasciano scoraggiare dalle esperienze dolorose vissute. A qualcuno è successo di sentire un ex collega di lavoro definire «stupidi» i malati di demenza. A dei giovani malati è invece capitato di venire ignorati durante una conferenza tenuta dal comune imperniata proprio sulla demenza.
Non è nemmeno facile accettare l’idea di dover abbandonare le proprie consuetudini. Ueli Glaus racconta di aver dovuto recentemente riconsegnare la patente dopo un test di guida. «Non sono più in grado di guidare», ammette. Pur perdendo un po’ della sua mobilità, ne capisce l’esigenza. Non vorrebbe certamente essere la causa di un incidente. Ueli Glaus riesce comunque a servirsi dei trasporti pubblici da solo e spera di poter continuare a farlo ancora a lungo. Gli altri membri del gruppo si congratulano con lui per il suo atteggiamento. L’interazione con gli altri è improntata sul rispetto, l’unione fa la forza.
Aprirsi all’altro
I membri del gruppo si concentrano soprattutto sugli aspetti positivi, sulle opportunità e intendono motivare così anche altri malati di demenza. Raccontano quindi di incontri con persone pronte ad aiutarli, della sensazione di essere presi in considerazione. Per esempio, la cameriera del ristorante che legge il menu a voce alta, oppure gli ex colleghi pompieri che mantengono i contatti. Inclusione, facile a dirsi, ma difficile a farsi. Secondo Stefan Müller, infatti, l’opinione pubblica non ha raggiunto il giusto livello di consapevolezza. Due anni fa, a 60 anni, gli è stata diagnosticata una forma di demenza, ma come la maggior parte degli altri membri del gruppo ha nel frattempo capito che anche lui può contribuire a migliorare le cose: «Tocca a noi aprirci agli altri e parlare della nostra malattia.»
In un negozio di abbigliamento Stefan Müller ha informato la commessa di avere l’Alzheimer e di aver bisogno di aiuto per provare la polo che aveva scelto. Per lei non è stato un problema. Oggi lo aiutano anche nel supermercato, perché il personale conosce la sua situazione. Lo stesso racconta Thomas Maurer, affetto da demenza già da dieci anni. «Sono una persona schietta», dichiara. Quando è in difficoltà, si rivolge cortesemente a chi gli è vicino e chiede aiuto: «Normalmente vengo trattato in modo educato e corretto.» Se qualcuno ignora la mia richiesta di aiuto, non la prendo come un’offesa personale: «Non tocca a me educare le persone», afferma.
La trasparenza aiut
Il gruppo ammette di apprezzare la volontà delle istituzioni di coinvolgere i malati di demenza, per esempio con iniziative di carattere culturale. Martin Täuber menziona una proposta di Alzheimer Berna per i malati di demenza che consiste nell’osservazione in gruppo di opere d’arte al centro Paul Klee. «Parliamo di quello che i quadri raffigurano», racconta, «ed è un’esperienza fantastica.» Quando gli è stata diagnosticata la demenza dopo il pensionamento, Martin Täuber ha detto subito a tutti della sua malattia e non se ne è pentito, perché le reazioni sono state positive. «Conduco una vita ricca», sostiene. In generale la trasparenza è stata pagante per i membri del gruppo, anche se chi è malato di demenza a volte fatica a trovare le parole giuste. Marianne W. ha partecipato a un incontro sulla demenza a Zurigo dove ha parlato della sua vita con la malattia. «È stata una buona cosa», riferisce, «perché siamo riusciti davvero a dialogare.»
Beat Vogel si è messo a disposizione per alcuni articoli sui media ed è intervenuto a un congresso di neurologia. Dichiara: «Ne è valsa la pena, anche se dopo ero esausto.» Il gruppo di lavoro concorda sul fatto che l’informazione sulla demenza non è mai abbastanza. Quanto più la popolazione è consapevole, tanto più si crea un senso di inclusione. Il gruppo è al lavoro per pianificare una nuova campagna di manifesti raffiguranti volti umani, per far comprendere la diversità delle persone dietro la malattia. Gli slogan dovranno essere incisivi, per esempio: «Ogni 16 minuti una persona si ammala di demenza.» Lo stesso gruppo di lavoro Impulso Alzheimer è un ottimo esempio di inclusione.
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