In una lingua, l’italiano, sempre più permeabile alle parole straniere, è quasi doveroso cercare di tenere viva l’attenzione sulle proprie risorse espressive. Specie in quei contesti in cui la parola gioca un ruolo importante e delicato, come nel caso dell’assistenza ai malati.
È così che è nata la parola «curacari», un neologismo che si è creato anni fa per sostituire l’inglese «caregiver».
In «Oltre l’Alzheimer» si racconta l’arte dei curacari a 360° e si consacra definitivamente l’uso di questo nuovo termine.
Importante, naturalmente, il contributo di firme prestigiose sia del giornalismo che della ricerca, come Amalia Cecilia Bruni, Alessandro Cecchi Paone, Diego De Leo, Michele Farina, Marco Trabucchi, che l’hanno prontamente adottata e rilanciata. Anche grazie a loro, il termine curacari compare ora con sempre maggior frequenza sia nel linguaggio tecnico che in quello comune. Anche nelle principali aree di lingua italiana oltreconfine, come ad esempio il Ticino, ha già iniziato a diffondersi. E tutto questo rappresenta la migliore prova della facilità con cui viene assorbita e della leggerezza con cui esprime l’essenza del proprio significato: cura-cari, l’arte di prendersi cura di coloro che ci sono cari. O, se vogliamo seguirne lo spirito fino alle estreme conseguenze, l’arte di prendersi cura di coloro che ci diventano cari proprio perché ce ne prendiamo cura.
«Vita», in questa frase, tratta dal libro, è racchiuso il suo messaggio più intenso, «è tutto ciò di cui ci prendiamo cura».
Il caregiver è colui che presta la propria opera. Il curacari è molto di più: ha un’anima, e la propria opera la dona con il cuore.
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